15 dicembre 2018, giorno dello scisma d’Oriente, o meglio del secondo scisma d’Oriente.
Non la prima ma l’ennesima frattura nel mondo ortodosso, arcipelago sterminato di chiese nazionali, autocefalie solo formalmente unite dal legame col patriarcato di Costantinopoli, culla storica dell’ortodossia cristiana.
La seconda Roma, infatti, perso ufficialmente lo status imperiale nel 1453, ha attualmente solo un ruolo simbolico nel mondo cristiano orientale.
In virtù di ciò, a causa del processo di “Translatio Imperii” garantito dal matrimonio tra Sofia Paleologa e Ivan III di Mosca atto a conservare la Romanitas regale, da quel fatidico anno a seguire la difesa della “retta dottrina” è stata questione prettamente prima moscovita e russa poi, come anche affermò il monaco mistico Filofej, colui che definì Mosca stessa come terza e ultima Roma.
Il mito influenza la politica, la politica la storia, la storia il mito. E non è un caso che tale autocrazia sia stata quel primo tassello per l’edificazione finale dell’Impero degli Czar, dei Cesari d’Oriente, il quale ebbe storicamente due missioni universali: la fondazione del Regnum Dei e il raggiungimento dell’unità macro-slava, “Pan-Idee” inscindibili.
In quanto romana per destino, quindi ecumenica, la terza Urbe consacrò l’Imperium creando una chiesa autocefala e assoluta, per antonomasia principio unpopoli e centro religioso pulsante: la religio come “instrumentum regni”, “hard power” utile per espandersi e ascendere al rango di potenza globale.
Ed ecco che, pur saltando la parentesi sovietica sopraggiunta nel 1917 (in discontinuità –relativa- con tali miti fondanti appena accennati), si giunge al presente della Russia di Putin, potenza in fieri mossa da chiaro revanscismo verso l’eternamente inviso Occidente atlantista, primo nemico e unico ostacolo al compimento della nuova “Große Politik”. Politica di ampio respiro strozzata a sua volta dalla NATO, trincea nemica prossima ai confini della Nazione e pericolo dilagante nello spazio (vitale, per il Cremlino) ex-CCCP, come insegnano i conflitti bellici di Georgia e Ucraina, oltre al caso congelato (ma fino a quando?) di Moldavia.
Premesse necessarie per comprendere la realtà, sempre estremamente logica e razionale. Dunque, ignorando stavolta ben altre riflessioni –che pur vengono spontanee- circa questa storia contemporanea e analizzando proprio la suddetta, paiono chiare specialmente due cose: l’esistenza sia di uno spazio proto-imperiale (rampa di lancio russa corrispondente alle aree storiche di primissima influenza moscovita, ovvero Ucraina e Bielorussia), sia di un altro di successiva e naturale voluntas d’espansione (Balcani e Mediterraneo).
Arginare l’avanzata nel primo al fine di precludere il dilagamento nel secondo, questa è in sostanza la strategia nord-atlantica: ne risulta che la grande partita in atto dopo l’Euromaidan è quella decisiva per tutti gli attori in gioco i quali sul campo, con assoluta disinvoltura, muovono le pedine del gioco a seconda dei piani ideati.
Per l’uno e l’altro, occorre concepire l’Ucraina o come testa di ponte per l’assalto dell’Heartland o come ultima spiaggia, estrema occasione di rinnovata mitopoiesi universale.
Assumono allora un senso le repubbliche separatiste del Donbass e di Luhansk, così come i contras assoldati da ambo le parti, ma soprattutto da Kiev, anche al fine di esportare la “rivoluzione” al di là del perimetro attuale.
Qualcosa già noto agli addetti ai lavori.
Parimenti, ha un enorme significato il “secondo scisma d’Oriente” avvenuto nella prima metà di dicembre: caldeggiato dalla presidenza di Poroshenko e dal “deep state” americano, assieme al tacito assenso della diplomazia vaticana e all’imprimatur decisivo del patriarcato di Costantinopoli (da tempo teso verso Washington), la creazione della Chiesa autocefala d’Ucraina rappresenta anzitutto un colpo al cuore dell’ortodossia post-bizantina, simboleggiato dalla potenza della Chiesa ortodossa russa, espressione di quasi 200 milioni di fedeli sparsi lungo una direttrice transnazionale.
Per questa ragione si può parlare tecnicamente di un altro, e non inferiore, storico strappo ecclesiastico.
Chiaramente, secondo il punto di vista delle autorità di Kiev, esso costituirà uno strumento di notevole affrancamento dall’influenza russa soprattutto in un mondo, quale quello slavo, in cui la fede ortodossa è creatrice di civiltà, Kultur.
Tuttavia, questa scissione porterà inevitabilmente il Paese ad una spaccatura ancor più profonda, dal momento che esiste un’altra Chiesa ortodossa ucraina, esistente dal 1990 e in una comunione così salda con quella moscovita al punto da spingere il metropolita reggente, Onufrij, a rifiutare categoricamente tale decisione, a sua detta infondata e illegale.
Di questo punto, occidente e oriente ucraini saranno sempre più distanti: infatti, pare già chiara la linea teologica della nuova Chiesa scismatica retta da Epifanij, spiccatamente etno-nazionalista e conciliante sia col mondo LGBT che con quello ebraico, così influente in Ucraina da esprimere sia un primo ministro, Volodymyr Groysman, che la presidenza del consiglio ortodosso, attraverso il rabbì Yaakov Dov Bleich.
Dunque, una volta smarrita la bussola della Tradizione e la continuità dell’ecumenismo bizantino, essa è di fatto consegnata all’eresia del modernismo cristiano che ha già corroso l’Europa protestante e cattolica.
Grossomodo, nonostante entrambe le fazioni rivendichino dati ovviamente diversi circa il numero di parrocchie e fedeli seguaci, l’Ucraina stessa, al contrario di quanto auspicato e preteso dalle autorità civili, si troverà tagliata in due blocchi cultural-religiosi separati dalle acque del Dnepr, confine naturale: fatalmente segnata.
Concludendo, accomunare i destini di Russia e Serbia non equivale a commettere un errore: infatti l’Ucraina, da un punto di vista anzitutto storico, rappresenta per la Russia esattamente ciò che è il Kosovo per la Serbia, ossia il nucleo originario della Nazione, la premessa della genesi mitica dell’Impero cristiano. Invero le aquile bicipiti di entrambi i popoli slavi, in un tempo remoto, spiccarono il volo da queste terre sacre e devote al Basilèus e all’ortodossia, segnando la loro storia in maniera inequivocabile: due comunità eternamente solidali per appartenenza ad un destino comune, sospeso tra la tragedia apocalittica della dissoluzione e il sogno di una rinascita gloriosa.