Leopoldo Lugones lo definì un “rettile da lupanare”. Borgès, tramite il quale sono giunto a scoprire il capofila del Modernismo argentino, lo dice “un pensiero triste che si fa ballo”.
Sto parlando, ovviamente, del Tango. Il più argentino dei balli. Quello che incarna l’anima profonda di quella città labirinto che è Buenos Aires. Il Quartiere Palermo, le milonghe, gli uomini di coltello…
La Buenos Aires popolare, sensuale e violenta, che Borgès ha saputo narrare come fosse una nuova Ilio, una Roma imperiale e decadente. Una Buenos Aires che molti di noi si limitano a sognare. Anche perché, forse, non esiste più. Sempre che mai sia davvero esistita. Se non nei sogni del poeta… Come la Buenos Aires in cui fu, nel suo inquieto vagare, Campana. Ma qui dovrei aggiungere un forse. Perché Ungaretti racconta che il poeta di Marradi, suo antico amico, avrebbe anche lui solo sognato quel viaggio, in uno dei suoi, lunghi, deliri…
Comunque, il Tango è così. Pensiero triste e rettile da lupanare. Senza mezze misure. Senza infingimenti e ipocrisie che, in Europa, ne hanno cercato di stilizzare la violenta carica erotica. Trasformandolo, prima, in una sorta di corteggiamento manierato. Poi in una esibizione ginnica. E infine in un passatempo per pensionati, inibiti la sera dall’andare a contemplare gli amati cantieri… O almeno questo è stato sino a che non siamo entrati nell’era Covid. Che ha, come per una sorta di magia oscura, trasferito tutto sul, cosiddetto, piano virtuale. Anche il ballo. E, quindi, anche il tango. E l’immagine di, più o meno attempati, tanghere e tangheri, tutti agghindati, che provano in solitudine i passi di fronte ad uno schermo è tale da… far sembrare persino meno squallido il fai da te sessuale tanto consigliato, negli ultimi tempi, da virologi mediatici ed intellettuali alla moda….
Perché il Tango è corpo. È sensi. È un rapporto vivido e pulsante, che esplode, si consuma nella frenesia. E muore. Amore e morte. Alla fine si torna pur sempre dalle parti di Ovidio. E il pensiero triste di Borgès altro non è che la tristezza ovidiana dopo il coito. Quella che afferra, come un morso alla gola, tutti i viventi. Tutti gli animali. Ovvero, coloro che hanno anima e vita.
Vi è sempre meno vita in questo mondo. E soprattutto sempre meno anima. Martın Fierro forse galoppa ancora nella solitudine della pampas, come nell’epos di Josè Hernandez. Ma a Parigi non vi sono più Apaches che invitano, nella notte, al loro, appassionato e violento Tango, giovani prostitute dagli occhi bistrati di kayal.
E sul Rio de La Plata non risuona più la milonga di Piazzolla, che canta il coraggio e il coltello, gli amori e le donne.
Il Tango è un accordo di note lontane, un’eco appena di quella passione, di quella lussuria anche, che si è perduta nel grigiore di questa, squallida, quotidianità…
Una fantasia, certo, rileggendo Borgès, in una silente sera di Maggio.
Di cui resta, infine, solo un pensiero triste…