È ormai iniziato il tempo dei dolciumi. Degli abusi di zucchero, miele, paste di mandorle e via discorrendo. L’estate è lontana. Dietro le spalle da mesi. E la prossima remota. Nessun problema, quindi, per la, moderna, ossessione della, fantomatica, “prova costume”. Ossessione, ormai, politicamente corretta, come dimostra, irrefutabilmente, Instagram. Con una sfilata di giovanotti palestrati che si alternano a ragazze (e anche meno ragazze) che espongono orgogliose i loro glutei…
A questo, però, ci penserete tra qualche mese. A meno che non abbiate la speranza di una vacanza di Natale ai Tropici. Speranza che, però, dovrà fare i conti con Speranza. Anche se siete stati bravi e diligenti, e vi siete fatti addirittura otto dosi di vaccino… Così, per andare sul sicuro…
Comunque, per la maggioranza, è cominciata la canonica abbuffata di zuccheri, semplici e composti. Le feste di Natale sono il trionfo del dolce per antonomasia. Che può offrire la Pasqua? L’uovo, la Colomba…poco altro. Ma in questa stagione l’immaginazione di fornai e pasticceri si sbizzarrisce. A partire da tutte le, sempre più diverse, variantı di panettone e pandoro. Con glasse e farciture dagli innumerevoli colori. E sapori. Si va da quella al cioccolato al pistacchio. Dalla crema ai frutti di bosco. E poi alla grappa, per gli etilisti impenitenti. Sino a quello, sicilianissimo, alla manna. Dal vago richiamo biblico.
Personalmente, però, anche in questo preferisco la tradizione.. Non che i dolci tradizionali e caserecci non alzino la glicemia, i trigliceridi, il colesterolo… Però danno ben altra soddisfazione di quelli industriali, che hanno tutti, sul fondo, quel sapore caramelloso e indistinto di cui sono paradigma estremo i marshmallows…
I dolci della tradizione, invece, presentano un arcobaleno di sfumature. La varietà delle culture da cui derivano… Perché il cibo è, in certo qual modo, rappresentazione di una storia, di una civiltà. Che si sperimenta attraverso i sensi del gusto e dell’olfatto. Il sapore e il profumo. Nonché attraverso la vista. Perché, come si usava dire un tempo, si mangia, prima di tutto, con gli occhi.
E i dolci delle Feste di Natale sono, per eccellenza, banco di prova di tale esperienza sensoriale. Che, in quanto tale, è esperienza dello spirito attraverso il corpo. E se a qualcuno venisse lo strambo uzzolo di capire ciò che voglio intendere…vada a leggersi l’Adone del Marino. Ne ho parlato anche troppo spesso, ormai…
Il dolci delle diverse tradizioni sono una meraviglia di sfumature, oggi per lo più, dimenticare. O, peggio, annichilite.
Prendiamo, solo per fare un esempio, il Pan Giallo. Dolce tradizionale del Natale romano. Ora, io lo conoscevo da molto prima di stabilirmi, esule, qui a Roma. Infatti ero uso scendere all’Urbe durante le feste. Per incontrare antichi amici. Per lo più, ormai, perduti. Comunque, in quelle occasioni andavo in cerca di tale dolce in alcuni forni che ancora lo preparavano secondo la ricetta tradizionale. Che prevede l’uso di miele (e non di zucchero), farina, poca, e un profluvio di mandorle, pinoli, canditi, uva passa, fichi secchi… Impastato in forma tondeggiante, e spennellato di rossi d’uovo prima di passare al forno. Per dargli appunto il caratteristico colore dorato. Che oggi è ben difficile da riscontrare. Perché, anche quando lo trovi, il Pan Giallo, giallo non è più. È invalsio l’uso, barbarico, di mettervi il cioccolato. Oltre al ridurre la frutta secca, e sostituire lo zucchero bianco al miele… Ora, dico io, ma vi rendete conto che la ricetta originale risaliva ai tempi dei Saturnalia romani e alle feste del Solstizio? Il “pane” doveva rigorosamente essere giallo, perché ricordava, appunto, il Sole risorto. Che c’entra il cioccolato arrivato dalle, remote, Americhe?
Quando, in antico, lo si assaporava durante i Larentialia, le Festa di Acca Larentia, che precedeva di poco quella del Sol Invictus, il colore dorato evocava, agli occhi dei commensali, la luce del Nuovo Sole. E, al primo morso, la frutta secca dava la sensazione dei semi che, nel seno gelido della terra, si preparavano a germogliare nella ancor lontana primavera. E il miele, poi, richiamava emozioni di quella Età dell’oro che Virgilio canta nel quarto libro delle Georgiche. E nella famosa e discussa IV Ecloga.
Era un piacere del palato, accompagnato da tazze di vino caldo e speziato, capace di fugare il gelo dell’inverno. Ma rappresentava anche un modo per volare con la fantasia in una stagione più mite. E, ben oltre, in un’epoca in cui l’uomo non conosceva dolore e paura. Il dolce scacciava, per un momento, le amarezze e le asprezze del vivere quotidiano.
Ho parlato del Pan Giallo con i miei allievi, l’altra mattina…
“E che è sta roba, prof.?” mi hanno chiesto.
Sorpreso, ho provato a spiegarlo.
In parecchi hanno scosso il capo. Mai mangiato. Mai neppure sentito nominare dai nonni…
“E poi prof. – ha commentato il Boro – noi sta robba nun ce piace… Tutta sta frutta secca, sti canditi. Noi preferimo er Pandoro… Che poi è delle sue parti, no?”.
Ho scosso il capo anch’io. Inutile spiegare che il Pandoro è creazione recente. Elaborazione ottocentesca del ben più antico Nadalìn, che facilmente anche Dante ebbe occasione di assaporare alla mensa di Cangrande della Scala. E che, a sua volta, derivava da un dolce di cui ci Parla Plinio il Vecchio, che era un padano. E che narra di un “Panis” dolce e dorato, che un celebre cuoco del suo tempo, tale Vergilius Stephanus Senex, preparava per le feste del Solstizio…
Inutile…. ormai, per loro come per quasi tutti, mangiare è solo un riempirsi lo stomaco. E il sapore una sensazione sempre più…indistinta. Sotto i moderni alberi sintetici con le luci al led, che non possono più venire definiti di Natale per diktat del politically correct, non vi è posto che per, insapori e mollicci, marshmallows….