Il terremoto che colpì la zona dell’Irpinia nel 1980 fu un evento devastante sotto ogni punto di vista. Lo spettacolo raccapricciante di migliaia di vite rinvenute senza vita e lo spettro tagliente del crollo economico furono la certezza di una condanna per il Sud.

La struttura geomorfologica del bel paese (sopratutto nella zona appenninica) è instabile, ramificata e complessa. Questo non lo apprendiamo dagli esperti, ce lo insegnano L’Aquila (2009) e Amatrice (2016).
DOVE, QUANDO E NUMERI DEL TERREMOTO Dell’ IRPINIA
Il 23 novembre del 1980 le regioni Campania, Basilicata e Puglia vennero colpite da un terremoto di magnitudo 6.9. La fatale scossa, durata all’incirca 90 secondi, provocò la distruzione totale di più di 100.000 case causando il conseguente sfollamento di quasi 300.000 persone. Le province di Avellino, Salerno e Potenza ne uscirono distrutte, i morti in totale furono 3.000 mentre i feriti, difficili da contare, intorno ai 10.000.
Uno scotto duro da pagare ci fu per il comune di Laviano dove su 1.500 abitanti 300 persero la vita; mentre a Balvano una tragedia incomprensibile gettò tutti nello sconforto, durante la celebrazione della messa serale la chiesa inevitabilmente crollò, e sgretolandosi, trascinò con sé 66 tra bambini e adolescenti.
In seguito alle rilevazioni effettuate venne scoperto che l’epicentro della scossa esplose a 10 km di profondità dove si registrarono fenomeni di rottura sotto i monti Marzano, Carpineta e Cervialto all’interno della riserva naturale dei Monti Eremita. La frattura del suolo misurava addirittura 35 km.

IL RITARDO DEI SOCCORSI
Ad incubo finito i soccorsi tardarono ad arrivare. In parte per la totale assenza della protezione civile e in parte perchè le zone colpite dal disastro (perlopiù paesini e villaggi di provincia) erano difficili da raggiungere per la mancanza di infrastrutture adeguate.

Il Presidente della Repubblica in carica Sandro Pertini si recò sui luoghi del terremoto e la sua furia pubblica dovuta ai ritardi nei soccorsi provocò un esodo di volontari da ogni parte d’Italia. I quali, misero insieme le forze e salvarono il salvabile. Gli sfollati furono sistemati provvisoriamente in semplici tende, nei giorni successivi arrivarono anche i container e i prefabbricati che, in alcuni casi, ospitarono intere famiglie per oltre 10 anni.
lo zampino della mafia
Lo Stato stabilì il danno economico in 66 miliardi di euro e si adoperò, sin da subito. Organizzò una campagna finanziamenti per salvaguardare l’economia del meridione, danneggiata gravemente dalla perdita di infrastrutture e manodopera. Non solo, lo scopo del governo era di favorire lo sviluppo industriale appoggiando e quindi sostenendo finanziariamente ùl’avvento di nuove piccole e medie imprese. Nelle trattative Stato – comuni si inserì però la mafia che anche in una situazione tragica vide un occasione da non sprecare.
Gli imprenditori uscivano da ogni dove, contabilizzavano il denaro statale per poi dichiarare fallimento. Inoltre, i paesini bisognosi di fondi statali per le ricostruzioni raddoppiarono improvvisamente, da 300 a 600. “Finti comuni” non colpiti dal terremoto ricevettero corpose somme di denaro per rimediare a danni mai avvenuti. Un esempio eclatante fu quello di Torre Annunziata. Due quartieri del comune italiano ottennero 12 milioni di euro per la ricostruzione. Ricostruzione che, appunto, non avvenne mai.
Oggi, la riedificazione delle zone colpite più dirsi pienamente completata. Tuttavia, rimane di difficile comprensione come permanga un’accisa di 4 centesimi per ogni litro di carburante a favore della riqualificazione delle aree devastate.