II “bogianen” an dijo:
famosa novità!
Già tuti a lo savìo
da doi mil’ann ansà.
Riputassion franch giusta:
sël Pò, sël Var, sël Ren,
al é na stòria frusta
che noi i bogioma nen.
Lo san s’a l’é nen vera
Guastalla e San Quintin,
Pastrengh, Gòito, Peschiera,
Palester, San Martin.
Gëneuria farisea,
veule accertev-ne ben?
Lo san fin-a ‘n Crimea
che noi bogioma nen.
Còsa mai veule? I soma
Na rassa d’ fafiochè,
Che un ciò quand i piantoma
Gnun an lo fa gavè…
…Ma cribio, ‘l temp
’s ambreuja,
papa, fransèis, alman,
për pijeine fin la greuja
al scur as dan la man.
Fòra ij barbis ch’a luso,
e con la spa ant ij ren,
adòss ai bruti muso..
Contacc, bogiom-ne nen?
Il testo è di Angelo Brofferio, avvocato e poeta dell’Ottocento, parlamentare e più volte arrestato per il suo spirito libero. Il titolo della canzone è “ Ij bogianen” e la si può trovare nell’interpretazione di Gipo Farassino, il più grande chansonnier piemontese ed un altro spirito libero. Per questo Gipo fu più ammirato che amato. Perché le sue canzoni, che raccontavano una verità spesso scomoda, davano fastidio, mostravano che il re era nudo. E non a caso i politici piemontesi hanno sempre accuratamente evitato di utilizzare un suo brano come inno regionale, accampando le più miserevoli scuse.
La versione di comodo raccontava di una Torino dinamica, brillante, viva, coraggiosa, con lo sguardo aperto sul futuro. E Gipo cantava i fondeur con le mani nere ed i polmoni bucati; i quartieri grigi; lo sfruttamento; il timore reverenziale nei confronti di un potere, qualunque fosse. E così Gipo compose una nuova versione de “Ij bogianen”. E se Brofferio cantava i piemontesi che non si muovevano, non arretravano davanti al nemico, Gipo raccontò i nuovi piemontesi attenti solo a rispettare tempi e doveri, senza mai disturbare, senza mai uscire dalla routine, in nome del decoro per evitare le critiche della gente. La prima versione aveva una musica marziale e terminava con i tamburi che rullavano, la seconda una musica molto rispettosa, umile, che non disturbava.
La situazione è ulteriormente peggiorata. Torino ha perso competitività, ruolo. Ed era inevitabile per una città che ha dismesso la spada ed ha indossato il pannolone. Non si investe, perché “non si sa mai”. Non si assumono manager, “perché costano”. I salari sono inferiori mediamente del 30% rispetto alla vicina Milano, ma è colpa del destino cinico e baro. Le classi dirigenti, pubbliche e private hanno paura della propria ombra. Gli assessori non decidono per paura dei magistrati, gli organizzatori di eventi bloccati dagli assessori non osano protestare per paura di ritorsioni. Il pannolone si riempie e non viene neppure cambiato.
Tutti sono diventati suscettibili, si offendono per un nonnulla, le critiche sono vietate. Ci sono state alcune pecche nel contorno alle finali Atp di tennis, ma chi ha osato dirlo è stato considerato un disfattista traditore della patria, non uno che voleva offrire un contributo di idee in vista della edizione del prossimo anno.
Nella vicina Rivoli si tolgono le deleghe alla Cultura ad un assessore rea di aver osato ironizzare sulla canzoncina simbolo del politicamente corretto: la ragazza è troppo coraggiosa per potersi occupare della cultura rispettosa del pensiero unico obbligatorio.
Però, con pannolone pieno e gambe tremanti, si possono togliere cittadinanze onorarie ai defunti, si possono firmare appelli contro le liti di condominio in Paesi lontani, si può strillare contro i non vaccinati che, essendo pochi, non fanno paura. Peccato che non si possa pensare al futuro. O semplicemente, peccato che non si possa pensare: as sa mai, potrebbe essere troppo pericoloso.