“Non ci interessa che Torino sia la capitale del vino. Vogliamo che sia la casa del vino”. Dopo lo squallore delle frasi ad effetto dal palcoscenico di Sanremo, è inevitabile che la retorica dilaghi per tutta Italia. Dunque bisogna sopportare anche la nuova definizione che accompagna la presentazione della prima edizione del Salone del Vino di Torino. Con l’ambizione di far dimenticare le ultime edizioni di una “Fiera dei vini” d’antan che, in teoria, andrebbe a concludersi sovrapponendosi proprio al nuovo Salone, in programma dal 4 al 6 marzo con oltre 250 produttori.
In realtà gli eventi del Salone partono già il 28 febbraio, con oltre 100 appuntamenti in più di 60 tra ristoranti, piole, enoteche e luoghi del politicamente corretto. Come politicamente corretti sono gli ospiti, gli artisti, gli scrittori selezionati dagli organizzatori.
La prima edizione sarà dedicata in particolar modo sui vini piemontesi, pur con alcune presenze di vini esterni. Ovviamente in abbinamento con i cibi del territorio. Sinergie per promuovere Torino nel mondo, come ha spiegato il sindaco Stefano Lo Russo. D’altronde è inutile illudersi su un ruolo trainante di ciò che resta di quella che, in un tempo sempre più lontano, era la Fiat. Dunque occorre diversificare l’immagine, puntando su ciò che resta davvero di qualità. Un settore che crea occupazione e che fa parte dell’identità subalpina.
Almeno sino a quando il pensiero unico obbligatorio non vieterà bagna caoda e agnolotti, fritto misto e finanzierà per sostituirli con vermi, grilli e scarafaggi. In nome, ça va sans dire, della sostenibilità, del multiculturalismo, del “siamo tutti cittadini del mondo”.
Nel frattempo, però, meglio approfittare delle degustazioni proposte dal Salone del vino, evitando i sermoni degli esperti della cancel culture.