Le storie dei produttori italiani di pipe a volte si intrecciano come la trama di un romanzo. Proprio come una di quelle saghe familiari, di cui I Leoni di Sicilia di Stefania Auci non è che l’ultimo esempio, che da sempre hanno grande successo tra i lettori.
Le vicende di alcuni marchi di pipe che ancora oggi godono dell’apprezzamento degli estimatori del fumo lento e dei collezionisti, potrebbero costituire il canovaccio di fondo di un bel romanzo di questo genere.
Nel 1959 Carlo Scotti, patron della Castello in quel di Cantù, assume alle sue dipendenze Giuseppe Ascorti, detto “Peppino”. Quest’ultimo si distingue fin da subito per le sue capacità e per l’impegno; e quando la moglie rileva un negozio di frutta e verdura, comincia a mettere i soldi da parte per dare vita ad un marchio tutto suo. L’occasione si presenta quando nel 1968, insieme all’amico e collega Luigi Radice, abbandona la Castello e inizia a produrre pipe in proprio. I primi tempi sono difficili, finché i due incontrano Gianni Davoli, un tabaccaio di Milano, che era alla ricerca di un marchio nuovo per inserirsi su un mercato che, all’epoca, si prospettava più che promettente.
Una sera i tre si trovano in casa di uno di loro. Hanno stappato una bottiglia di vino e chiacchierano del più e del meno. All’improvviso, complici le abbondanti libagioni, hanno l’intuizione che farà la loro fortuna. A riscaldare la loro serata c’è il camino e sia Ascorti che Radice hanno i baffi. Nasce così, quasi per caso, il nome della nuova azienda: si chiamerà Caminetto e avrà come marchio un bel paio di baffi a manubrio, che in seguito anche Davoli sarà costretto a farsi crescere.
In quel periodo negli Stati Uniti c’era una grande richiesta di pipe Castello. Ma la manifattura di Cantù non riusciva a far fronte alle richieste del nuovo mercato. Davoli lo sapeva bene, e decise di inserirsi con il nuovo marchio nel mercato di oltreoceano con prodotti di pari qualità rispetto a quelli creati da Scotti, ma commercializzati a metà prezzo. Il successo, per quanto insperato, fu pressoché immediato e per nulla contrastato da il Castello, che anzi vide di buon occhio quei due che si erano fatti le ossa nei suoi laboratori e che ora riuscivano a spiccare il volo con le proprie ali.
Davoli era soprattutto un venditore, e fece pressione sui soci affinchè aumentassero la produzione. Si giunse così a produrre in modo industriale e la qualità ne risentì pesantemente. Ascorti e Radice erano molto scontenti della situazione ma Davoli li teneva in pugno. La conseguenza fu la rottura del sodalizio.
In seguito Roberto, figlio di Peppino, che collaborava con il padre fin da giovanissimo, creerà insieme a lui un marchio proprio, cosa che fece anche Radice. Ma Roberto riuscì anche a riappropriarsi del marchio Caminetto, che intanto era fallito, e a riproporlo. Oggi molti pensano che Caminetto sia una sottomarca di Ascorti. In realtà non è così. Entrambi i marchi, infatti, continuano a produrre pezzi di pregio che vengono commercializzati un po’ ovunque.
La stessa cosa succede al marchio Radice. Nel 1980 Luigi, con il figlio Gianluca e il padre Paolo, mette su un laboratorio a Cucciago, che piano piano si conquista un posto degno di nota tra i produttori italiani.
Non c’è abbastanza materiale per scriverci un libro o per girarci almeno un film?