“Scusi, questa è Isola della Scala?” chiedo a un ragazzi che sta salendo. Nella notte, buia e piovosa, non si vede nulla fuori dal treno…e le stazioncine del locale non vengono annunciate da nessuno.
“No – dice scuotendo la testa con la cascata di riccioli neri, stile rasta – è Bovolone. Isola è la prossima”.
È un ragazzo di…colore. Un tempo, prima delle censure politically correct, avrei scritto negro. Ma, ora, pare che sia offensivo. Anche se, sinceramente, non capisco perché. Leopold Senghor, presidente del Senegal e più grande poeta dell’Africa cantava la “negritudine”. E ricordo una sua lirica “Donna negra, donna bella”. Offensivo, e stupido, è usare l’eufemismo “di colore”. Che non significa nulla. Perché tutti abbiamo un colore… ma così è, oggi….
Comunque, sono tornato a prendere il treno. Dopo molti, moltissimi anni. Una quindicina, più o meno. Nei quali, certo, di treni ne ho presi. Ma erano sempre Alta Velocità. Per lunghe percorrenze. Posti prenotati. Poche fermate. Frecce talmente veloci che manco riuscivi a vedere scorrere il paesaggio dal finestrino.
Questo, invece, è un Regionale. Come viene chiamato oggi. Un tempo, lo si definiva Locale. Che mi sembrerebbe ancora più azzeccato. Perché è uno di quei trenini che toccano tutte le località più isolate, e improbabili, della Penisola. Lento. Si ferma ogni cinque minuti su binari avvolti dalla notte, e da una nebbia piovigginosa. Roba antiquata. Roba d’altri tempi.
Eppure, qui, mi senti in certo qual modo, a casa. Diventa un viaggio nella memoria. Per molti anni infatti ho dovuto prendere treni come questo. Giovane insegnante, pendolare per raggiungere ogni mattina la scuola dove insegnavo. Nella campagna veneta.
Allora, però, non viaggiavo in solitudine. Eravamo un gruppo, anzi una vera brigata di insegnanti alle prime armi. Ancora entusiasti…perché eravamo felici del lavoro che facevamo. E non era, certo, una questione di retribuzione. Come sempre scarsa, ché nel nostro Bel Paese per la scuola i fondi sono sempre stati pochi. Prima veniva tutti il resto. Poi…. si grattava il fondo del barile.
Ma eravamo felici. Ci piaceva insegnare. Anche in aule di fortuna, come nel mio Liceo di allora. Allocato in un’ala dell’ospizio dei vecchi. Con l’odore di zuppa di cavoli che veniva dalle cucine, e compenetrava le aule. E, talvolta, un vecchio in pigiama, evidentemente afflitto da Alzheimer, che entrava in classe ciabattando, mentre spiegavi Tacito…
Ma eravamo allegri. Giovani, e la vita ci sembrava ancora bella. Spensierata. Il viaggio, poi, mezz’ora salvi i (frequenti) ritardi, era uno spasso. Risa, scherzi, di tutto di più. Talvolta portavamo i termos col caffè… facevamo una bagarre che manco gli studenti….
E poi quei trenini sono sempre stati un osservatorio privilegiato. Dal quale osservare l’Italia. I suoi mutamenti. La gente che la popola. Gli usi. I costumi…
E devo dire che, da quei tempi ad oggi, davvero molto è cambiato.
Molti, moltissimi gli…stranieri (ma è espressione politicamente corretta ? Non so…). Ragazzi, soprattutto, che salgono o scendono nelle località più sperse. Ed improbabili. Segno di come sia mutata in profondità l’Italia. Un ragazzo africano che sale a Bovolone… non è la stessa cosa che ad una fermata della Metro di Roma. Indica una metamorfosi dell’humus del paese. Qualcosa che ha a che fare con le stesse radici. E che, però, non mi sembra negativo. Il ragazzo, quando ha detto Bovolone, aveva una inflessione …veneta. Era come se dicesse: qui sono a casa.
In questo trenino semidesertico, nella sera di pioggia, nel silenzio, ho pensato, tranquillo, a tante cose. La sua corsa, lenta, è stata un ripercorrere le stagioni passate. Del mio paese. E della mia vita.
Le ho viste scorrere, dal finestrino. E devo dire che mi sono sentito incredibilmente… felice.