Non è un bubbolio lontano, come quello che il Pascoli evoca in una, folgorante e breve, lirica di Myricae. È, piuttosto, come se qualcuno battesse sul bronzo di uno scudo con un’ascia. O su cento scudi, con cento asce. Non dissimile doveva essere il suono che annunciava l’avvicinarsi di una schiera di Sassoni. Quelli che seguirono Hengist, alla conquista della Britannia. E che Borges canta in una delle più intense poesie de “L’oro delle Tigri”.
Lo so…sono solo fantasie, venate di reminiscenze letterarie. Vecchi libri che mi tornano alla mente in questa pigra sera. In una città vuota e silenziosa. Non per la pioggia soltanto, ché anzi questa è l’unica compagnia sonora, se vogliamo l’unica musica che giunge da un quartiere come tanti. Un quartiere, come si usa dire, residenziale. In realtà una periferia con un bel po’ di pretese, ma, ormai, desertificata. Dove tutto è solitudine affollata. La peggiore. Quella che ti nega la quiete e la libertà che erano proprie degli eremi.
Comunque, pomeriggio e sera di pioggia fitta. Battente. Monotona. E, però, si ode il tuono. Per lo più lontano. E il tuono ha sempre un suo potere di suggestione. Un potere…magico. Per me, almeno.
“Aspettavano pioggia /mentre le nuvole nere si radunavano lontano…”
Qui, però, la pioggia è già giunta. Non come in questi versi di Eliot, da “Ciò che disse il tuono”.
È giunta, ben prima del tuono. Ma non sembra portare ristoro a questa, nostra, Terra Desolata.
E non credo che, alla fine, una voce, o anche solo un’eco pronuncerà “Shantih, Shantih, Shantih”.
La pace, quella che intendeva il poeta, è remota illusione. E, forse, è meglio così. Forse, da questa paresi ci si potrà liberare solo con la guerra. Il pòlemos di Aristotele. E venti di guerra spirano sempre più forti. Sempre più vicini. Il Buran, la Bora come la chiamano a Trieste, ce ne porta i suoni. E l’odore acre. Appena al di là dell’Adriatico. Solo un braccio di mare. Eppure non ce ne accorgiamo. O meglio, non ce ne vogliamo accorgere. Siamo troppo preoccupati da… Altro. Drogati da paura mediatica. Ottusi al mondo.
Il paradosso è che, se provi a dire che tuona e che il tuono si avvicina, ti guardano come una sorta di Marziano. E neppure con quel tanto di simpatia di cui gode quello inventato da Flaiano. Sei un alieno fastidioso. O pericoloso, a seconda dei casi.
Epperò tuona. E il tuonare diventa sempre più distinto. Piu vicino. Lo avverti. E non puoi fare nulla. Solo… guardare la città che sembra dormire. Un sonno incosciente. Comatoso. Prigioniera dei suoi incubi.
Piove. E la mia fantasia, annoiata, mi spinge a divagazioni assurde. A giocare come se fossi una sorta di Nostradamus de’ noantri… Dovrei scusarmi. E chiudere qui.
Però continua a tuonare…