Tutti da Fulvia sabato sera. Era il titolo di una striscia di Tullio Pericoli ed Emanuele Pirella pubblicata, per una trentina d’anni, prima sul Corriere e poi su Repubblica. Una striscia in cui la sinistra riusciva a fare dell’autoironia sul proprio mondo radical chic. Non la satira, feroce, del Male (che non disdegnava di colpire anche la propria parte, Brigate Rosse comprese), bensì una ironia sulle manie di una gauche rigorosamente caviale e champagne.
“Ogni epoca – commentava Oreste Del Buono – ha la propria Madame Verdurin e Tullio Pericoli (disegni) ed Emanuele Pirella (testi) ci hanno gratificato della nostra Madame nella persona di Fulvia che inesorabilmente ogni sabato sera raduna tutti quelli che, quanto ad intellettualità, contano qualcosa e credono di contare di più, quelli che non contano nulla, ma si comportano come se contassero, quelli che forse hanno contato, ma non contano da un pezzo e cominciano addirittura a sospettare di non aver contato mai. La riunione squisita, in apparente sfida ai frivoli programmi dei gran contenitori televisivi, ma in sostanziale coincidenza d’intenti, cachinni e disvoleri, è il pretesto per la rassegna della fiera della vanità delle idee ricevute da diffondere ulteriormente, provoca il lettore al riso di una illusoria superiorità e al disagio di una possibile chiamata di correo meritata e meritabile.
Un caricaturista di splendida ferocia e delicato pittore, un romanziere di accanito risentimento e micidiale stratega di spericolate campagne pubblicitarie ci raccontano attraverso Fulvia e gli ospiti del suo salotto le mediocri follie, le paradossali incertezze, i futili dilemmi di quello che l’indimenticabile ministro degli interni Scelba definì ne varietur il culturame. Una saga intellettuale condita di veleno, ma anche d’altro. Anche della constatazione, a suo modo positiva, che le forze o, meglio, le debolezze in campo sono queste, e tanto vale prenderne atto e cercar di riderci sopra. Una constatazione che aggiunge al veleno una strana cordialità familiare. Per citazione ricevuta da un partecipante al salotto che mai ha contato e conterà e, quindi, si ritiene promosso abusivamente all’imbecillità di gruppo”.
Una striscia iniziata nel 1976, perché proprio mentre impazzavano gli anni di piombo, con morti e feriti, c’era chi riusciva a reagire seppellendo la tensione con una risata. Con le provocazioni anche estreme. Gli anni, brevissimi, degli indiani metropolitani. E non solo a sinistra. Erano gli anni delle vignette del Candido e delle foto cattivissime del Borghese. Ma erano soprattutto gli anni della Voce della Fogna. Ma la destra partitica, allora come ora, non ha mai amato il “fuoco amico”. Come fu chiaro a Marco Tarchi quando provò ad ironizzare sui vertici di un partito che tendeva ad imbalsamarsi. Ci sarebbero poi stati i tentativi di Linea e, con minor successo, del Morbillo. Ma ormai i tempi erano cambiati.
Il sabato sera da Fulvia è riuscito a sopravvivere sino al 2009, anche in questo caso con una progressiva riduzione di interesse. D’altronde erano i salotti della gauche caviar ad essere diventati noiosi e ripetitivi. Non era più una novità la riunione salottiera romana per decidere a chi assegnare i premi letterari, tra crisi isteriche, innamoramenti, tradimenti, parentele, eresie politiche, anatemi e perdoni da parte di un Pci che, ai propri intellettuali organici, molto permetteva anche se non tutto.
Ma anche chi veniva scomunicato dai potentissimi responsabili culturali del partito non veniva mai emarginato. Anzi, era utilissimo per dimostrare il pluralismo di una sinistra culturale che non buttava via nulla. Mostre di quadri e fotografie, pubblicazioni di libri, collaborazioni a riviste e quotidiani, alla peggio una cattedra universitaria o una consulenza ben retribuita non si negavano neppure a chi non si entusiasmava per i carri armati a Budapest e poi a Praga. O, dopo, a chi rimpiangeva il compagno Stalìn nonostante la presa di distanza del PCI.
Però era venuta meno ogni capacità di “fare cultura”. Era rimasta solo l’abilità di gestire la macchina culturale. Che è tutt’altra cosa.
Morta la cultura gauchista, ora è la destra a provarci. Con la zavorra di chi continua ad avere crisi di nervi per il terrore del fuoco amico. Ma Manuela Lamberti, presidente dell’Arsenale delle idee, ha deciso di provarci ugualmente. E invece del salotto di Fulvia il sabato sera lancia a Torino il “tinello di Manu”. Niente champagne e caviale ma salame e vino rosso. Per accompagnare la presentazione di libri o discussioni che vadano oltre le banalità del politicamente corretto. Perché è con il confronto culturale che si costruiscono le classi dirigenti del futuro.
Con la speranza di non provocare le reazioni isteriche di chi teme le critiche.