Talete. Talete di Mileto, che è l’autore con cui si apre, o almeno si apriva un tempo, la storia della filosofia al liceo. Il primo filosofo, in buona sostanza. Che portava la sua attenzione sui fenomeni fisici. E che aveva elaborati – forse apprendendoli dagli egiziani – alcuni concetti fondamentali della geometria.
Ma Talete era, anche, uno dei Sette Sapienti. Il cui elenco, da Platone a Demetrio Falereo varia notevolmente. I nomi cambiano, ma quello di Talete resta, per lo più, fisso. Uno dei fondamenti, del pensiero e della sapienza greca.
Di lui, però, ci restano poche massime. Tra cui questa: che tutto è pieno di Dei.
Ed è un pensiero, a ben vedere, strano. Perché il sapiente di Mileto viene, in genere, accreditato come il capostipite di una razionalità, di un nuovo modo di pensare che portò alla frattura con il mito. Dunque con gli Dei e con le loro storie.
Certo, si potrebbe liquidarla facilmente – come in genere si fa – parlando di un vago panteismo. Utilizzato, magari furbescamente, per rompere i legami con la religione tradizionale. I suoi riti, le sue credenze…
Ma questo mi sembra un voler proiettare la nostra mentalità su un uomo che visse nella Ionia tra il VII e VI secolo a.C.
E mi sono sempre domandato come uomini così antichi, così lontani da noi, vedessero e pensassero le cose. Domanda senza risposta. Perché l’archeologia può scoprire manufatti e scheletri. Ma non dirci cosa quegli scheletri pensavano. E cosa percepivano intorno a loro.
Al di là di Talete, ho l’impressione che noi si tenda a liquidare come “panteismo”, ovvero come una forma di religiosità primitiva, giustificata dalla ignoranza scientifica, una capacità di percepire che abbiamo perduto.
Perdita solo in parte compensata dallo sviluppo delle facoltà di raziocinio. E Talete, più in generale i primi filosofi greci, rappresentano lo snodo. Il momento di passaggio.
Facciamo un balzo nel tempo e nello spazio. Don Juan. Lo Stregone yaqui di Carlos Castaneda. Nel primo libro, dove inizia lo strano noviziato, gli insegna a vedere e, soprattutto, ascoltare tutte le cose. Esseri animati e inanimati. Anche semplici oggetti. Ad esempio trae una “approvazione” da una vecchia caffettiera che bolle sul fuoco. Come se questa fosse un essere senziente. E cosciente di ciò che le avviene intorno.
Un romanzo, si dirà… ma i libri di Castaneda sono molti più della forma, indubbiamente romanzata, con cui narra. Sono l’avvicinamento, se non la penetrazione, ad una cultura antichissima. Ad una sapienza – lui la chiama quella dei “Toltechi ” – tanto remota da sembrare aliena. O peggio, pura fantasia…
La nostra razionalità è, indiscutibilmente, una grande conquista. Un dono straordinario, anche se, oggi, vi stiamo abdicando. Ma ci porta a vedere le cose solo sotto un profilo materico. Ovvero come cose, che si possono pensare e misurare. Ma che ci restano completamente estranee.
Per inciso, l’errore della ecologia. Che vede la Natura come una mera astrazione. Non come un insieme di forze, esseri, enti viventi. Capaci di interagire con noi.
L’uomo antico – e ancora quelli che noi, con colpevole supponenza, consideriamo “primitivi” – vedeva presenze ovunque. Dei, ninfe, ondine, folletti, gnomi… i nomi possono variare, gli Dei del mito trasformarsi in leggende popolari, o in personaggi delle fiabe. Ma la sostanza non cambia.
Non si tratta di una credenza, di una superstizione. Di quello che noi, in antropologia, chiamiamo “panteismo”.
Ma di una capacità di vedere, sentire, percepire… prima ancora che pensare.
Ormai noi viviamo chiusi in noi stessi. L’immagine della nostra scatola cranica è, in fondo, quella di una stanza chiusa. Una prigione, che ci costringe all’infinito soliloquio con noi stessi. Ci ha isolato dalla Natura. Dagli esseri che si celano dietro la parvenza fisica delle cose. E, ora, ci sta completamente isolando anche dai nostri simili. Dagli altri esseri umani.
Perché viviamo prigionieri di noi stessi. Incapaci di percepire altro. E gli altri. Il degrado dei rapporti umani, delle relazioni familiari, della stessa organizzazione sociale, ne è il portato.
Forse era uno scotto da pagare. Forse è servito a farci sviluppare quel senso dell’io, quella individualità che si stenta ad affermare in culture ancora… arcaiche. Come gli aborigeni australiani. O, appunto, certi popoli nativi delle Americhe.
Ma è uno scotto pesante. Ci percepiamo, e sentiamo, sempre più soli.
Soli tra i nostri simili. E solo nel mondo.
Chissà… forse gli Dei non ci hanno davvero mai abbandonato. Forse sono sempre lì, dove sono sempre stati. In tutte le cose. come dice Talete. Ovunque.
Ma noi non siamo più capaci di vederli.