In questo periodo di coprifuoco forzato, tanto vale occupare le serate guardando un po’ di TV. Ma visto che le offerte sono sterminate e non è facile imbattersi in prodotti di qualità, vi consigliamo di prestare attenzione a una miniserie da poco uscita su Netflix.
Si tratta de “La Regina degli Scacchi”, una miniserie in sette puntate prodotta dalla stessa società. Il regista è Scott Frank, un cineasta che pur avendo girato pochi film a suo nome ha lavorato come sceneggiatore con registi importanti, da Speelberg (Minority Report), a Kenneth Branagh, da Sydney Pollack a Steven Soderbergh.
Il titolo originale della serie è “The Queen’s Gambit”, il Gambetto di Regina (in Italia si direbbe “di Donna”), e racconta le vicende di Beth Harmon (interpretata da una incantevole quanto enigmatica Anya Taylor-Joy) una piccola orfana che dimostra uno straordinario talento per il gioco degli scacchi.
La vicenda è ambientata negli Stati Uniti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, in un epoca in cui il gioco degli scacchi godeva di una particolare popolarità, culminata con l’epico scontro Fischer-Spassky che nel 1972 tenne con il fiato sospeso mezzo mondo. Una sfida che, al crepuscolo della Guerra Fredda, vide per la prima volta un giocatore non sovietico, e per giunta americano, aggiudicarsi il campionato del mondo.
La vicenda di Beth è del tutto immaginaria, naturalmente. Ma parte da un presupposto intrigante: che succederebbe se in un ambito esclusivamente maschile irrompesse una ragazzina che si divora in un sol boccone tutti gli avversari come fossero delle pedine?
E questo già basterebbe a rendere la trama interessante. Me c’è molto di più: il microcosmo composto dai giocatori è riprodotto in modo minuzioso e fedele. I tornei, le rivalità, i tic e le manie, l’ossessione nel ricercare le soluzioni perfette che consentano di raggiungere la vittoria.
Un mondo che oggi sembra del tutto scomparso. Non solo perché questo straordinario gioco ha perso l’appeal di un tempo, ma anche perché con la diffusione dei computer le stesse soluzioni di gioco che un tempo erano affidate alla sola mente umana, ora sono risolte in pochi istanti da un microchip.
Il merito del regista è quello di restituirci in buona parte quel mondo dimenticato, attraverso le manie dei giocatori, la tensione che aleggiava sulle scacchiere durante le partite, la solitudine alla quale erano condannati i giocatori professionisti, costretti a pensare solo a quanto avveniva, o poteva avvenire, sulla scacchiera. E non mancano riferimenti ai grandi maestri, alle loro memorabili partite (la prima, giocata da Beth nel sottoscala dell’orfanotrofio in cui vive, è l’arcinoto Scacco del Barbiere) alle tecniche, alle aperture e così via. Non mancano, come è ovvio, riferimenti ai diritti civili e al mondo LGBT: ma per una volta sono appena accennati se non del tutto marginali.
Un grande film!