«Quando si perde un figlio si perde tutto. Non resta più niente. Solo la notte. Solo le tenebre».
«Lo so signor Kaplan, lo so».
A rispondere sul grande schermo è Gérard Depardieu, che interpreta il commissario Maigret. Ma in realtà sono parole che arrivano dal cuore dello stesso attore francese, che nel 2008 perse il figlio Guillaume, trentasettenne, morto a causa di un’infezione polmonare dopo una vita turbolenta e inquieta.
È uno dei momenti più intesi e toccanti della pellicola “Maigret” diretta da Patrice Leconte, da pochi giorni nei cinema italiani. Un film che sembra ritagliato apposta sulla figura enorme, in tutti i sensi, di Depardieu. «Ancora prima di fare leggere la sceneggiatura, mi ha detto subito di sì – ha raccontato il regista in un’intervista – Non avevamo mai lavorato assieme, ed è stato straordinario. Depardieu è imponente, meticoloso, guarda molto, osserva tutto ed è simile al personaggio e ai suoi silenzi. Guarda tutti con i suoi occhi ai raggi laser, anche in fondo al set lui nota ogni cosa e si interessa di tutto e quando si appassiona è davvero incredibile, a livello di concentrazione e disponibilità».
Non era una sfida facile far interpretare a Gérard Depardieu la popolarissima figura del commissario parigino nato dalla fantasia di Georges Simenon, in particolare dopo l’esempio di alcuni “mostri sacri” come Jean Gabin, Gino Cervi e Bruno Cremer. Tuttavia è stata una scommessa vinta e non solo per l’assodata bravura dell’attore francese. All’inizio lo spettatore ci mette un po’ a convincersi che l’omone con cappello e cappotto, che si muove a fatica per le strade di una Parigi dai colori spenti, sia veramente il commissario del Quai d’Orfèvres, uno degli investigatori più famosi della letteratura mondiale. E questo perché la strabordante personalità di Depardieu rischia di offuscare il personaggio di finzione. Pian piano, però, la bravura del settantaquattrenne attore francese ha la meglio sulla sua fama; e grazie a un’interpretazione asciutta e misurata, fatta di sguardi e silenzi più che di parole, dopo un quarto d’ora la trasfigurazione è completa.
Il film di Leconte prende le mosse dal romanzo “Maigret e la giovane morta”, uscito nel 1954, quarantacinquesimo capitolo della serie del commissario simenoniano. Una delle opere forse meno note e al tempo stesso più intimiste, nella quale Maigret indaga su una ventenne sconosciuta trovata morta in abito da sera e apparentemente uccisa a coltellate. Il regista Leconte imbastisce un noir psicologico dai contorni molto cupi, nel quale Maigret/Depardieu si muove con passo pesante in una Parigi assai poco monumentale, fatta di vicoli, cortili, case popolari e stazioni di autobus. Per giunta senza neppure poter fumare l’amata pipa a causa della proibizione del medico. Un Maigret invecchiato, crepuscolare e malinconico che prende a cuore la storia della ragazza sconosciuta perché si convince che potrebbe avere più o meno l’età della figlia mai nata. Un dettaglio intuito, più che rivelato, grazie ai dialoghi stringati con l’adorata moglie.
La regia di Leconte è scarna ed essenziale: a settantacinque anni il regista parigino – autore di più di trenta film, molti dei quali di successo – non ha più nulla da dimostrare, perciò asseconda volentieri il talento di Depardieu e una trama, per certi versi semplice e lineare, dalla quale emerge in modo cristallino uno dei dogmi del commissario Maigret: scoprire la verità senza giudicare e soprattutto «senza far troppo male a nessuno».