Da una parte le forze euroscettiche a spingere per cambiare i trattati e creare un’Europa più snella con maggior potere agli Stati; dall’altra le fazioni europeiste a sventolare la bandiera della ‘ever closer union’, quel processo ‘federalista’ di trasferimento delle competenze, dai parlamenti nazionali a Bruxelles. Almeno cosi era, fino a non più di un anno fa. Cioè fino a quando va di scena il paradosso: euro-critici pronti difendere le regole attuali ed europeisti a volerle cambiare.
Il tabù di rivedere le regole
Eppure era un tabù, quello della modifica dei trattati Ue. Ma, crisi dopo crisi, le dinamiche della politica interna Ue tutto sono tranne che coerenti. Cosi, le forze euro-entusiaste vogliono oggi cambiare i trattati: per, nientemeno, accentrare ancor più poteri nelle mani di Bruxelles. Quanti deridevano la necessità di modificare i testi fondanti, oggi ne sono sostenitori. Poiché è cambiata la direzione delle rivendicazioni: in senso nazionale prima, accentratrice oggi.
Il parlamento di Strasburgo spinge per una convenzione che lavori alla riscrittura dei trattati, incluso quello di Lisbona che pone le basi costituzionali dell’Unione, dando seguito alle indicazioni giunte dalla conferenza sul futuro dell’Ue.
Due schieramenti a confronto
Tredici Paesi del nord, centro ed est Europa hanno pubblicato una lettera nel quale bocciano ogni cambiamento dei trattati: “La gestione Ue delle recenti crisi – scrivono – dimostra che l’Ue può agire bene entro il quadro dei trattati cosi come è”. Tra i firmatari paesi come Polonia, Repubblica ceca e Finlandia, storicamente difensori della sovranità nazionale.
A ribattere sulla necessità opposta, i sei Paesi fondatori, fra cui Italia, Germania e Olanda. Una coalizione che rende l’idea di come per rispondere alle crisi le alleanze interne siano a geometria variabile.
Una crisi dopo l’altra
Dal declino finanziario del 2008, passando per l’enorme flusso di migranti nel 2015, fino alla pandemia e all’aggressione russa in Ucraina, l’Ue si è occupata sempre di gestire crisi non volendo – e talvolta non potendo – riflettere sul funzionamento istituzionale interno.
Programmi di emergenza come il Recovery fund, accordi – non sempre trasparenti – con paesi terzi, politiche monetarie e in ultimo l’invio di armi sono state definiti tramite intese fra governi o da decisioni del Consiglio, dove a farla da padrone sono i capi di Stato.
Ed è questo punto che ha convito Paesi solitamente in contrasto con Bruxelles e le forze più critiche del Parlamento Ue a ripiegare sulla difesa del modus operandi attuale, piuttosto che rafforzare le tradizionali rivendicazioni di modifica dei trattati in senso ‘nazionale’.
Una vittoria di Pirro?
Non si intravede fine alle crisi che attanagliano il Vecchio continente ed è probabile che le risposte arriveranno ancora dai capi di governo nel Consiglio europeo: hanno più capacità di improvvisazione e possono mettere le altre istituzioni Ue di fronte a fatto compiuto.
Questo, stando le cose, rappresenterebbe una vittoria per quelle forze più favorevoli ad una Europa di Stati sovrani che cosi conserverebbero l’attuale insieme di regole e prassi.
Paradossalmente, quanto avversavano fino a non molto tempo fa