Forse qualcuno ricorderà la vicenda dell’iscrizione all’anagrafe al Comune di Torino di tre figli di coppie omosessuali. Alla cerimonia dei primi due gemellini partecipò anche il sindaco Appendino, con spiegamento importante di telecamere e giornalisti.
La notizia finì su tutti i giornali e su tutte le televisioni, e per giorni non si parlò d’altro.
Poi della faccenda non si seppe più niente perché, come è risaputo, le notizie invecchiano rapidamente.
Ma in quella occasione stupì il fatto che quasi nessuno si rammentasse che in Italia l’”utero in affitto” è vietato dalla legge, ed è punito con la reclusione da 3 mesi a due anni e con multe fissate da 600mila Euro a un milione. In quell’occasione i fautori del riconoscimento dei figli delle coppie gay si trincerarono dietro il fatto che la pratica fosse stata effettuata all’estero. Come se un reato, per dire un furto, perpetrato, supponiamo, in Francia possa essere non considerato tale se il ladro è residente in Italia.
Ciò che i media di servizio si sono ben guardati dal riportare è che il caso di Torino ha fatto scuola.
Si è infatti appreso nei giorni scorsi che sono ormai una ventina i Comuni italiani che iscrivono all’anagrafe i bimbi di coppie gay, di fatto avallando la pratica della maternità surrogata. Si tratta, oltre alla già citata Torino, di Gabicce Mare (PU), Catania, Grosseto, Roma, i comuni piemontesi di Moncalieri, Settimo, Piossasco, Collegno, Casellette, Gassino, Borgaro, Chieri, Nichelino e Beinasco. E ancora Milano, Napoli, Bologna e Crema. Una lunga lista di amministrazioni, anche se sarebbe più opportuno parlare di amministratori, che per una deriva ideologica violano la legge italiana.
Anche la Corte Europea è stata più volte interpellata sull’argomento affinché si esprimesse a favore. Ma sempre Strasburgo ha resistito, tenendo fede ai suoi patti costitutivi, quella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che nel capitolo “Diritto all’integrità della persona”, vieta in via assoluta «di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro».
Un rifiuto, insomma, dell’idea che in questa parte di mondo ci si possa vendere un rene o, ugualmente, affittare l’utero.
Sarebbe il caso che qualcuno lo ricordasse alla sindachessa di Torino e a coloro che ne hanno seguito l’esempio.