Michikusa. Una parola giapponese. Ogni tanto, mi piace recuperare queste parole, sul web o su qualche libro. Sono… evocative. E questa la ritrovo sul sito fb dell’Ambasciata del Giappone in Italia.
Che si preoccupa, caso raro, di promuovere la conoscenza della sua cultura.
Dunque…Michikusa è parola formata da due kanji. Tanto per fare un, blando, sfoggio di vana eruduzione, i caratteri kanji sono ideogrammi. La prima forma di scrittura della lingua nipponica. Importata dalla Cina. E infatti kanji significa caratteri, o scrittura, Han. E Han sono i cinesi. Quelli veri.
Dunque, Michikusa è composta da due kanji. Strada, o sentiero. Ed erba. E vuol dire: camminare per l’erba. Quindi senza una meta precisa. O dimenticandosi di qualsivoglia meta. Si potrebbe renderlo con il nostro Vagabondare, ma con un connotato più decisamente… positivo.
Perché, in questo girellare senza meta, si fanno esperienze diverse. Esperienze di ogni tipo. Non finalizzate ad uno scopo preciso. Ad una meta. E, proprio per questo, più importanti e costruttive.
La raffigurazione giapponese del vagabondo è, in certo senso, incarnata in Matsuo Bashō. Probabilmente il massimo poeta dell’haiku, vissuto nella seconda metà del ‘600. Che fu viaggiatore instancabile, nonostante potesse vivere tranquillo e onorato a Edo. Dove aveva il suo “rifugio”. Ma il suo viaggiare per le isole giapponesi era senza meta precisa. Era, appunto, un vagabondare. Che ha nutrito la sua poesia e tutta la sua scrittura. Da lì una capacità unica di fermare impressioni sulla soglia della coscienza, prima che divenissero caos di pensieri e sentimenti. E di esprimere in modo cristallino, il rapporto empatico, o meglio ancora simbiotico, con la Natura.
E mi vengono in mente le figure di vagabondi e i vagabondaggi dei romanzi di Knut Hamsun. Il grande scrittore norvegese, in “Fame” e in tanti altri scritti, evoca sempre un girovagare senza meta. Senza finalità. Che può, in un certo senso, venire interpretato come ozioso. Ma si tratta di una diversa declinazione del concetto latino di “otium”. Sempre contrapposto ai “negotia”, gli affari, gli impegni della vita.
Sono i due poli dell’esistenza. Sistole e diastole. Polarità di cui siamo andati progressivamente perdendo il senso. E la necessità… vitale. Leggete il De otio di Seneca. E l’autobiografia di Hamsun. Che, non a caso, si intitola “Per i sentieri ove cresce l’erba”.
Oggi sembra impossibile vivere anche una sola giornata senza avere una, o più mete. Il nostro tempo viene ossessivamente finalizzato. Scandito da impegni, obiettivi, target. L’immagine dell’uomo e, sempre più, della donna di successo sembra essere quella di una sorta di automa che si desta la mattina, e fino a quando non si addormenta la sera, o a notte inoltrata, non fa che perseguire obiettivi ben determinati. In modo ossessivo. Anche il piacere e il divertimento diviene obbligo. Meta definita. E, appunto, ossessiva .
Questo, forse, potrà fare sentire, come è uso dire, “realizzati”. Ma fa perdere molto altro. Soprattutto fa perdere se stessi. Perché ci si identifica totalmente con ciò che si fa. Esterno a noi. E, in qualche modo, legato ai meri interessi economici. In un mondo ove ormai, come profetato da Marx, tutto ha un prezzo. Anche se non ce ne rendiamo conto, diveniamo meri ingranaggi di un sistema. Totalmente alienati dal nostro mondo interiore.
Ramana Maharshi, uno degli ultimi grandi maestri dell’India, poneva come fondamento della ricerca interiore un’unica domanda. Un’unica meditazione.
Chi sono io?
L’uomo, o la donna, indaffarato, impegnato, sempre attivo nei “negotia”, sa molte cose. Realizza molte cose. Ma trascura se stesso, anche quando si convince di essere felice così… poco male, si dirà… contento lui…
Purtroppo, però, certi nodi irrisolti, prima o poi, vengono al pettine. E si è costretti a fare… bilanci non aziendali. Di ben altro tipo.
Il vecchio Bashō poteva ricordare le albe e i tramonti che aveva contemplato vagabondando. E in cui si era… riconosciuto. Le memorie dei suoi allievi dicono che andò oltre… sorridendo.
I libri contabili e le mete mondane sono importanti, non lo nego. Ma oltre una certa soglia…. beh, non te li puoi portare dietro.