Una mia Amica mi fa vedere una raccolta di vecchi orologi. Orologi da taschino, come venivano chiamati. Cipolloni. Quelli che si legavano con una catenella. In genere d’argento. Qualche volta d’oro.
È una bella collezione…
“Sono un ricordo di mio nonno”, mi dice. “Li amava molto. Pensa che li teneva accanto al letto, e ogni sera li caricava tutti. Non riusciva a dormire, altrimenti…”
E mi viene in mente un vecchio sceneggiato della RAI. Di quando ero appena un ragazzino. In bianco e nero. “Il segno del comando”. Una storia di mistero, esoterismo, reincarnazione. Fantasmi e maghi. Sullo sfondo di una Roma prevalentemente notturna. Incantata ed inquietante. Un programma che fece epoca, con un cast d’eccezione. Ugo Pagliai, Vanessa Gravina, Andrea Cecchi, Paola Tedesco, Franco Volpi…grandi attori presi di peso dal teatro. Come usava allora….
Lo si ricorda ancora quello sceneggiato. Forse per la straordinaria sigla finale “Din don, din don, mille campane…”. Cantata da Lando Fiorini. Che aveva una voce incredibile. Ricordo che andai ad un suo spettacolo, al famoso “Puff”. Molti anni fa. Poco prima che morisse. Un fuoco di fila di battute. Salaci. Pesanti. Il vero cabaret romano. Poi, però, si mise a cantare. “Din din, din don…”.. E fummo trasportati in un’altra Roma. Quella magica e misteriosa de “Il segno del comando”, appunto.
Bene, in quello sceneggiato, Pagliai, il protagonista, ad un certo punto, facendo ricerche sull’orafo e alchimista Ilario Brandani, va a trovare un vecchio collezionista di antichità. Che gli fa vedere la sua collezione di orologi. E gli dice che li tiene in perfetto ordine. Sempre, regolarmente, caricati.
Pochi giorni dopo, il vecchio muore. E Pagliai si accorge che uno degli orologi si era fermato…
La simmetria tra il ticchettio dell’orologio e i battiti del cuore è evidente. E immediata. E rimanda, per ovvio traslato, alla concezione che abbiamo del tempo della vita. Che è basata sullo spazio. Perché noi non siamo in grado di concepire il tempo in sé. Siamo, sempre e comunque, imprigionati nella dimensione spaziale. Dalla quale deduciamo quella temporale. Per questo i vecchi orologi erano rotondi. O meglio circolari. Riproducevano il corso del Sole. Che determina le nostre giornate. Scandisce il giorno e lo distingue dalla notte. Nascevano, quegli orologi, quei cipolloni da taschino, dall’osservazione del cielo. Derivavano dal rapporto degli uomini con il cosmo. E, quindi, con le vecchie meridiane. Che si fondavano, però, esclusivamente sul Sole. Tant’è che la Notte veniva considerata in modo diverso. I Romani, quelli con la maiuscola, la dividevano non in ore, ma in “vigilie”. Popolo militare, si basava sui turni di guardia. Come ancora nella nostra Marina: la Notte divisa in scolte. E l’ultimo turno detto Guardia Diana. Perché giunge sino all’alba.
Oggi i vecchi orologi, con forma circolare e lancette, sono sempre più una rarità da amatori. Soprattutto se ancora con la carica a molla. Quelli nuovi sono digitali. Vedi scorrere i numeri. Ore, minuti, secondi. In frenetica successione.
Non è un particolare trascurabile. È, al contrario, indicativo di una crescente tendenza all’astratto. Non percepiamo più la relazione, cosmica, fra Spazio e Tempo. Solo la fuga dei giorni. La, frenetica e irreprensibile, fuga della vita.
La circolarità del vecchio orologio da taschino dava un senso di eterno ritorno. Non c’era il sentimento della perdita. La perdita, irrecuperabile, del tempo. Che è invece la sensazione che ti trasmettono questi numeri che continuano a scorrere sul quadrante.
Guardo di nuovo i vecchi cipolloni del nonno della mia Amica. Mi trasmettono una sensazione di…serenità.
Sai, le dico, sono proprio belli. E poi…mi danno la sensazione che nulla vada perduto. Che ogni cosa, ogni momento, prima o poi ritorna.
Lei mi guarda. E sorride con gli occhi.