È da poco sbarcata su Netflix l’ultima stagione di Vikings, la fortunata serie televisiva canadese e irlandese iniziata nel 2013.
La registrazione degli ultimi dieci episodi era prevista da tempo, ma fu bloccata alla fine del 2019 a causa della pandemia. Alla fine, tra mille difficoltà, la realizzazione è stata completata per uscire in anteprima alla fine dello scorso anno su Prime Video e ora anche sulle altre piattaforme.

Come molti sapranno, dal momento che i 79 episodi precedenti sono stati seguiti da milioni di spettatori in tutto il mondo, vi si narrano le vicende del guerriero vichingo Ragnarr Loðbrók e dei suoi discendenti. Si tratta di un personaggio leggendario di cui parlano le antiche cronache nordiche tra le quali il Gesta Danorum di Sassone Grammatico, lo stesso testo in cui si trova citato per la prima volta il personaggio di Amleto, reso poi celebre dalla tragedia di Shakespeare.
Naturalmente la sceneggiatura è assai romanzata. Ma l’ideatore del progetto, il britannico Michael Hirst, si è attenuto in modo piuttosto scrupoloso ai testi antichi, ricostruendo ambientazioni, usi e costumi del tempo, nonché i fatti storici che hanno avuto come protagonisti i personaggi rappresentati, tutti vissuti intorno alla prima metà del IX secolo d.C.
Nella seconda parte del racconto emerge la figura del primogenito di Ragnarr Björn Ragnarsson, soprannominato “la corazza”. Figura anch’essa leggendaria, viene qui rappresentata come un re e un guerriero sì valoroso, ma pieno di dubbi ed incertezze. Björn è un eroe, soprattutto per il suo popolo, ma la lettura che ne fa Hirst è del tutto antiretorica e lontanissima dagli stereotipi romantici che pure sarebbe stato legittimo aspettarsi in un adattamento televisivo.
Tuttavia nel primo episodio della parte conclusiva viene raccontata la sua morte. Una fine che assume aspetti epici che pochissimo hanno a che fare con le narrazioni alle quali le fiction televisive ci hanno abituato.

Dopo il primo scontro con i Rus (gli abitanti della Russia guidati dal principe Oleg e consigliati dal fratellastro di Björn Ivar “senz’ossa”) i quali si lanciano all’attacco dei territori vichinghi allo scopo di impadronirsene, Björn viene gravemente ferito. Ma per non lasciare il suo esercito e il suo popolo senza una guida, pur sofferente e incapace di reggersi sulle gambe, si fa rivestire dell’armatura e issare sul cavallo. I suoi nemici lo credono morto. Per cui, quando lo vedono avanzare verso di loro solo, credono di aver di fronte il suo spettro. Un generale gli si avventa contro e lo trafigge con tre frecce. Ma Björn non cade, anzi, pur con enorme fatica e sofferenza alza al cielo per l’ultima volta la sua spada. A quel segnale il suo esercito si affaccia all’orizzonte e, dagli sguardi dei suoi nemici, si comprende che il tentativo di invasione è stato respinto. Il nemico volge le spalle e fugge. Björn il re, il guerriero, l’eroe ha vinto. Ha vinto la guerra e anche se stesso, sacrificando la sua vita per la sopravvivenza del suo popolo. Il suo trionfo è completo.
La scena vale l’intera serie, un po’ troppo sbrodolata tra continue bevute, scene di sesso e di battaglia. E rappresenta un momento epico come raramente se ne sono visti in televisione o al cinema. L’antiretorica di cui sopra viene messa per un attimo da parte, per lasciare il posto a un momento alto, eroico e superbamente drammatico.
E se il pubblico di ogni parte del mondo si entusiasma di fronte a questo spettacolo, forse c’è ancora speranza.