Le parole, si sa, possiedono una vita propria: variano semanticamente, a seconda dei tempi, delle genti, dei contesti. I primi cristiani, ad esempio, si appropriarono di termini latini desueti, attribuendo loro nuovi significati e, in pratica, rivitalizzandoli: è il caso di lemmi come gentili, pagani e così via.
Lo stesso accade oggi, con alcune parole che hanno mutato del tutto accezione, rispetto alle loro origini: ad esempio, populismo è diventato sinonimo di destra rozza e aggressiva, laddove indicava un movimento russo di matrice socialista; migrante, dal valore di participio presente, che indica un’azione in divenire, ha assunto quello di participio passato, ovvero di azione conclusa, che dovrebbe, invece, pertenere al termine immigrato.
Insomma, quando ci fa comodo, le parole mutano di senso e di valore. Così è per il concetto di virale: a un dipresso, oggi si dice virale una frase, un’immagine, un filmato che, sui social networks, goda di vastissima diffusione e, pertanto, porti fama e/o palanche a chi ne sia stato l’autore. Si tratterebbe, perciò, di un termine positivo: gloria e bezzi non fanno schifo a nessuno. Non dimentichiamoci, però, che, originariamente, si diceva virale per indicare una malattia: era pressochè sinonimo di infettivo: il che, come noterete, aveva una valenza piuttosto inquietante.
Orbene, c’è un campo della comunicazione in cui la parola virale mi pare abbia mantenuto un significato maligno: la diffusione esponenziale delle cazzate. La cazzata, su internet, ha molte più probabilità di diffondersi della cosa seria: le cose serie, per solito, mancano di éclat, mentre le cazzate sono false come il princisbecco, ma suonano benissimo. E, con questo meccanismo vanno a nozze i milioni di imbecilli, occasionali o cronici, che infestano la rete.
Dunque, a seconda delle occasioni offerte dal calendario o della cronaca, si troverà un esercito di inconsapevoli untori che diffonderà ai quattro venti sciocchezze sesquipedali, con la sola dote del corrispondere a ciò che un cretino cognitivo immagina essere la storia dell’umanità: ovvero, un’ininterrotta sequenza di frasi ad effetto, giustappunto.
Così, ci piace pensare che Che Guevara fosse un libertario buono e bravo, laddove incarcerava ed uccideva omosessuali, oppositori e gente che, semplicemente, gli stava sulle palle.
Del pari, ripetiamo a stufo quella vecchia panzana delle brioches, che Maria Antonietta avrebbe suggerito di distribuire al popolo affamato: come se non bastasse averla decapitata, del tutto innocente. In realtà, la battutaccia è attribuita – neppure con certezza – alla mamma della regina decollata, Maria Teresa, che l’avrebbe pronunciata in tutt’altro contesto.
Lo stesso dicasi per quell’altra boiata che avrebbe proclamato Voltaire: disapprovo quel che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo. Che in bocca a uno come Voltaire, che denunciò un rivale accusandolo di sovversione, per levarselo di torno, suona vagamente ridicola. La frase, infatti, è di una biografa del filosofo, Evelyn Beatrice Hall, che la infilò, ex abrupto, in un suo libro del 1906.
Ma questo, per le bassaridi del web cosa volete che cambi? E così via: il fine giustifica i mezzi. Ma Machiavelli non lo sapeva. “Prima sono venuti a prendere…”(e qui potete metterci chi vi pare, a seconda che difendiate la causa degli Ebrei, dei libertari, degli Zulu o dei rettiliani), che Brecht non si sognò mai di scrivere e che, in compenso, con qualche variante, pertiene ad una predica di Niemőller, che, in verità, nemmeno si ricordava di averlo detto.
In conclusione, ciò che è veramente e perniciosamente virale in internet è questa cultura dell’ignoranza pervicace: questo ripetere a pappagallo bischerate di cui non si conosce, né men che meno si verifica, la fonte.
E il virus, che, ve lo rammento, originariamente significa “veleno”, si diffonde, imbeve il cuore ed il cervello delle persone: ci rende peggiori, manichei, permeabili alle superstizioni più varie.
La prima rivoluzione sarebbe tornare a studiare, cari electomagici: ma, come si fa, con tutto quello che c’è da scrivere su Facebook?