Ogni epoca ha il suo vocabolario. Perché una lingua, se viva, cambia. Si arricchisce o si impoverisce. E muta, poi, il significato di molte parole. Ovvero, il significante resta uguale. Ma il significato è diverso. Spesso completamente diverso.
Cosa che ho imparato una vita fa. A Trieste. Con il vecchio Mario Doria. Un burbero grosso come un ippopotamo, l’aria sempre sonnacchiosa sotto le pesanti palpebre a mezz’asta. Ma un grande glottologo. Da lui imparai le teorie linguistiche del De Saussure. In una grigia aula di università. E qui provo ad applicarle, per quanto, almeno, ancora mi è restato in mente.
Dunque, vediamo…
Resilienza. In gran voga, da qualche tempo. Lo usano un po’ tutti. Resilienza qua, resilienza là. È resiliente il professore universitario e il venditore di aspirapolveri porta a porta. Lo studente innamorato invano della compagna del primo banco, e la grassa matrona che fa catechismo ai bambini. È resiliente il parroco, e il gestore del porno shop… Insomma, tutti resilienti sono. O meglio si dichiarano di essere. Ma, se, putacaso, chiedi ad uno di loro che diamine significhi “resilienza” cominciano i problemi. L’imbarazzo. Il bofonchiare frasi smozzicate. Qualcuno fa vaghi accenni alla Resistenza, che tanto quella fa sempre buon brodo… E un giovane coatto mi ha detto che “il resiliente c’ha le palle”.
Orbene, la resilienza – Grande Vocabolario Battaglia alla mano – sta a significare la capacità di un materiale di reggere un urto senza rompersi.
Poi, naturalmente, sono arrivati gli psicologi. E lo hanno trasformato nella capacità di un individuo di reggere un trauma psichico. Dopo di che…il diluvio. E, alla fin fine, devo dire che il coatto ci aveva azzeccato. Perché, a furia di sentire usare questa parola a sproposito, per lo meno le mie, di palle, sono state messe a dura prova. Sono resilienti.
Facciamo un altro esempio.
Asintomatico
Ovvero che non presenta sintomi.
Sintomo è parola greca. In origine stava a significare “ciò che accade” e anche “avvenimento fortuito. Ma siccome c’è quel ” sin-“, assume il valore di ciò che accade insieme. Ora la medicina usa prevalentemente termini greci. Per colpa di Ippocrate. E quindi” sintomi “al plurale sta ad indicare l’insieme di accadimenti, se vogliamo di segni che rivelano una precisa malattia.
Asintomatico per la presenza di quella “alfa privativa” vuol dire che non presenta segni di una specifica patologia. E, di conseguenza, che è sano. Questa è logica linguistica. Viene da Aristotele, e su questa si fonda tutto il pensiero, ergo la civiltà, Occidentale..
Però ora…
Giorni fa mio figlio lamenta mal di denti. Ha la guancia gonfia, sembra che tenga in bocca una palla da tennis. Lo porto dal dentista. Medico e ragazzo intelligente. Ha un ascesso. Sei giorni di antibiotici, e tre giorni a casa da scuola.
Ma per rientrare deve portare il certificato del medico di base. Che non lo ha visto ed ha, sulle questioni odontoiatriche, competenze pari a quelle che io posso vantare in fisica quantistica. Il certificato del dentista non basta. Siamo in Italia.
Chiamo il medico e gli spiego. Ma questo mi dice: per avere il certificato deve fare un tampone. Per il Covid.
Resto perplesso.
Scusa, rispondo, ma ha mal di denti. Nessun sintomo del virus. Né febbre né altro.
Certo, mi ribatte. Ma proprio per questo potrebbe essere Asintomatico. Io devo accertarlo.
Mi incazzo. E mi scuso con le signore ma non c’è altro termine.
Dunque, torniamo alla questione linguistica. Asintomatico oggi non ha più il significato di sano.
All’opposto, l’assenza di sintomi diventa ragione di sospetto della malattia.
Poi capiamo perché è morta tanta gente durante questa, cosiddetta, epidemia. Perché erano e sono tutti preoccupati di spiare gli Asintomatici. Che stanno in ottima salute. E, quindi, non hanno curato adeguatamente i sintomatici. Ovvero i malati. Quelli dovevano stare in vigile attesa. E poi dicono che uno non si deve…. beh, lasciamo perdere.
Ora qualcuno penserà che siano questioni di lana caprina. Onanismi mentali da vecchi filologi.
Ma non è così. Il significato che si attribuisce alle parole incide profondamente nella realtà. E nella vita. Perché il nostro è un mondo intessuto di parole. E se noi cambiamo il senso di una di queste, addirittura lo invertiamo e pervertiamo, allora tutto, proprio tutto cambia.
Teorie, da Aristotele a De Saussure. Ma teorie di cui abbiamo, innanzi agli occhi, la prova tangibile.