Diciamo la verità… non c’è nulla di meno avventuroso di questo mondo e di questa epoca. In cui siamo costretti a vivere. O meglio, in cui ci siamo costretti da soli a vivere. Imprigionati per…
No, non voglio parlare delle ormai usuali cose. Mi stanca e mi annoia. E serve a ben poco. Coloro, e sono purtroppo molti, che pensano che vivere in un sistema dove tutto è programmato, controllato, sterilizzato, garantisca contro il rischio di morte, sono evidentemente contenti così. E dir loro certe cose è come tentare di spiegare teologia a un criceto. Anzi, è facile che il criceto capisca molto di più.
Comunque, a me questa condizione, questa realtà va stretta. E mi piace, almeno a tratti, tentare di evadere. Con la mente, se non con il corpo. Perché è, alla fin fine, la mente che sceglie tra libertà e schiavitù. San Juan de la Cruz scrive il Canto Spirituale mentre è in catene e sottoposto a tortura. Ed è un testo ove si respira aria fresca e libertà assoluta.
Molto più modestamente, tento di ripercorrere vecchi sentieri, battuti nella mia giovinezza. Quando, per dirla con Ungaretti, ardevo di inconsapevolezza.
E così ripenso a libri letti molti, ma davvero molti anni fa. Letti non per distrarmi, ché la gioventù non ha bisogno di distrazione, anzi è concentrata in modo parossistico… è la vecchiaia che ricerca distrazioni, per non dover fare i conti con se stessi… Letti, dicevo, anzi divorati con un entusiasmo che manifestava fame di vita. Vita, non mera esistenza o sopravvivenza biologica. Vita e, quindi, avventura.
“Avventura” vuol dire “le cose che accadranno”, e, per traslato, vicende inaspettate, rischiose, ma a loro modo stimolanti. E l’avventuriero non è un vecchio marpione che vive d’espedienti, che racconta balle come l’eroe al caffè di Trilussa, che riesce a imbrogliare qualche ragazza ingenua (posto che ancora ve ne siano) o, più facilmente, qualche matura signora annoiata. Quello è solo una variante della monotonia e dello squallore quotidiano. Ne sono pieni i locali notturni di periferia e le cliniche per alcolisti.
Il vero avventuriero, l’uomo che osa andare incontro al futuro, senza paura, anzi attratto dall’ignoto è tutt’altra cosa. Il vero avventuriero è Yanez de Gomera.
Yanez è un vecchio amico della mia giovinezza. Un amico immaginario, creato dalla fertile penna di Emilio Salgari. Forse il più grande, e al contempo misconosciuto scrittore popolare italiano. Sempre poi che la definizione, riduttiva, di “popolare” abbia un senso. Ché la letteratura d’avventura è letteratura e basta. E il Ciclo di Sandokan e dei Pirati della Malesia non sfigura, nella mia biblioteca ideale, accanto a capolavori conclamati. Ma poco letti, perché noiosi. Mentre Salgari non annoia mai.
Comunque Yanez è il co-protagonista del ciclo. E in alcuni romanzi più tardi, come “Il re del mondo” assurge al ruolo di eroe principale.. Tant’è che nei romanzi dei, molti, epigoni di Salgari, come Luigi Motta nd Emilio Fancelli, è poi proprio Yanez il portoghese, la Tigre Bianca a farla da padrone. E, ancora nel 2011 Van De Sfroos rivitalizzò uno spento Sanremo intonando dal palco il suo “Yanez de Gomera”. Ritmo trascinante, e testo in dialetto laghè. Che, per chi non sia cresciuto sulle sponde del Lago di Como, risulta meno comprensibile dell’aramaico.
Dicono, però, che Salgari, di origini veronesi, ma che conduceva grama vita a Torino, si fosse ispirato, per il suo Yanez, ad una figura reale.
Paolo Solaroli, figlio di un sarto di Novara, rivoluzionario, esule prima in Egitto, poi in India alla corte della Begun. Militare guerrigliero, avventuriero. Che partecipò alle Guerre Afgane, portando in modo rocambolesco la pelle a casa. E finì la sua carriera come aiutante di Vittorio Emanuele II, che lo nominò Marchese di Briona. Uno dei molti avventurieri autentici generati da questo nostro, strano, paese. Che, con le doverose eccezioni, non è mai stato patria di soldati. Ma di corsari, briganti cavallereschi, fuori legge audaci. Non per nulla, abbiamo eletto a nostro eroe nazionale proprio il Giuseppe Garibaldi…
Comunque, Yanez, come dicevo, è un vecchio amico di gioventù. Che ogni tanto torna a visitarmi, sopratutto nei momenti di malinconia e inquietudine. Quando sento, a fior di pelle, una sorta di febbricola, che non può essere testata con tamponi. E per la quale non esiste vaccino.
Allora, lo vedo entrare dalla porta, con l’andatura flemmatica e il sorriso ironico da cui pende l’eterna sigaretta. Ed ha le fattezze di Philippe Leroy. Inevitabilmente. Perché, certo, altri ottimi attori lo hanno interpretato. Ma Leroy non recitava. Lui era Yanez. Non per nulla si era fatto la Battaglia della Valle Silenziosa, nei parà …
Comunque, in quelle occasioni, Yanez non parla. Non mi dice nulla. Ed io non gli pongo alcuna domanda. Non ce n’è bisogno… la sua storia la conosco bene.
Ci limitiamo a stare seduti uno di fronte all’altro. In silenzio. Fumando una sigaretta dopo l’altra.
Verso l’alba, infine, Yanez si alza. Porta la mano alla tesa del cappello. E se ne va..
Per un poco, la mia inquietudine svanisce.